3 giugno 2015

Abbiamo tutti le nostre macchine del tempo: quelle che ci riportano indietro chiamate ricordi e quelle che ci spingono avanti chiamate sogni (cit.)


Qualche mese fa, per l'esattezza in febbraio ed in marzo, toccavo alcuni argomenti che sono tuttora molto sentiti e caldi: quello della cybersecurity e tutto ciò che ruota attorno al mondo dei millennials.

Negli stessi articoli spaziavo un po' su tematiche ad essi strettamente legate, come la privacy, l'open-internet, la net neutrality e la digital economy.

Oggi voglio ripercorrere ed aggiornare quegli articoli, ragionando però anche su altri due elementi che ho a cuore: il mondo delle start-up e la sharing economy.


Il 1 giugno è stato un giorno particolare negli USA: esattamente dalla fine di maggio, l'NSA non è più autorizzata -almeno per ora- a "spiare" i cittadini americani. Fino al mese scorso, infatti, grazie al Patriot Act (entrato in vigore anni ed anni fa, dopo l'11 settembre 2001, e di cui ne è stata bloccata l'estensione), i carrier telefonici dovevano tener traccia di tutte le telecomunicazioni avvenute e l'NSA poteva farne richiesta di accesso (cosa che ovviamente è accaduta e successivamente ritenuta anche illegale).


Certo, con il recensitissimo passaggio del Freedom Act al Senato (di ieri notte e che presto diventerà legge) è probabile che una nuova versione -se non altro "più contenuta"- di sorveglianza governativa verrà fuori. Ma si deve anche pensare che l'accesso a grandi quantità di dati non è automaticamente sinonimo di lesione della privacy.
Ad ogni modo, se fossi cittadino degli Stati Uniti d'America, penso che non mi dispiacerebbe affatto sapere di avere qualche vaga tutela in più...

Dico vaga perché, considerando tutto quello che accade quotidianamente sul web e non solo (il cloud non era super sicuro?, ed il protocollo https?, e quando chi si professa guardiano è poi il primo guardone?, ci si può fidare dei servizi via web? del resto se si arriva anche ai big figuriamoci come può sentirsi l'utente medio, attaccabile su vari fronti...), forse il concetto di privacy può passare in secondo piano.

E visto che tutta la nostra vita (non solo privata) si sta spostando nel mondo digitale e su Internet (ma è poi completamente vera questa affermazione?), non stupisce vedere -sempre a partire dagli USA- nomi famosi (ad esempio Microsoft in solitaria oppure in partnership con Google e con l'amministrazione Obama, o lo stesso Dipartimento di Sicurezza americano) ma anche meno conosciuti impegnarsi per la lotta al cyber-crime.
Lotta che si prospetta davvero dura per gli anni a venire.

Quello che preoccupa, però, è che certe idee -che potrebbero anche essere corrette o legittime- possono trasformarsi in strumenti perversi e fuori controllo.
Spunti di lettura:


Se alcuni paesi stanno cercando di diminuire quei sistemi di potenziale controllo di massa locale (o di supporto ad operazioni straniere), altri stati come UK (che già si dà da fare), Francia o anche il Canada, al contrario, hanno avviato o hanno intenzione di avviare nuovi protocolli (leggi) di controllo molto più severi (anche cross-continente).

Rimanendo in Europa, queste notizie che riguardano l'inasprimento dei toni vanno a sommarsi a quelle di anti-competitività nei confronti di Google o altre aziende leader sul mercato.
Da una parte si vuole -correttamente- un mercato digitale unico europeo, e dall'altra si vuole colpire chi in quel mercato fa il bello ed il cattivo tempo.

Sull'argomento ci tornerò fra poco, ma non sono del tutto convinto che politiche del genere siano l'unica strada per favorire, ad esempio, la ripresa dell'economia europea.

In USA si è votato e si sta lavorando per andare incontro alla neutralità della rete (nonostante i problemi che possono nascere o le proteste che si sono verificate -del resto non tutti erano completamente d'accordo sulla faccenda-). Ma si è pensato anche ad espandere l'accesso ad Internet ai meno abbienti (ed anche qui le proteste non sono mancate).

Perché l'Europa non è in grado di concentrarsi su problematiche simili, invece di pensare solo a fare la guerra ai più forti?



L'Europa ha bisogno di un vero mercato unico e di più leader in campo tecnologico.
Ci sono alcuni esempi di realtà europee che sono riuscite a scalare globalmente e ad uscire dal vecchio continente, ma la lista non è molto lunga.

Un mercato ampio come quello americano favorisce una crescita molto più rapida per le piccole (o non) nuove (o non) realtà. E non è un caso se la maggior parte di quelle realtà valutate sopra il miliardo di dollari (gli unicorni) si trova in USA.
In Europa la situazione è molto più complessa: ci sono tantissimi stati che parlano lingue differenti e che sono regolamentati in modo completamente diverso. Ciò non favorisce la crescita (cosa che oggi è fondamentale anche solo per la sopravvivenza); e se una azienda non cresce ha difficoltà a rivaleggiare con i giganti d'oltreoceano.

In tale discorso si cala perfettamente la questione start-up.
Ultimamente si parla tanto del fenomeno, come se fosse una rivoluzione degli ultimi mesi o poco più.

In realtà start-up può voler dire tutto oppure niente: ogni attività commerciale, piccola o grande che sia, ha avuto un inizio nella storia. Ci sono realtà presenti sul mercato da anche oltre un secolo, e ce ne sono tantissime che nascono e spariscono nel nulla in un battibaleno.
Ma questo è sempre accaduto. Anzi, secondo alcune stime, l'avvio di nuove attività sta anche diminuendo rispetto a qualche anno fa.

Quello che è sicuramente cambiato, però, è il come queste stiano venendo alla luce.



Acceleratori ed incubatori sono spuntati un po' ovunque. E quel giovane modello che sembra funzionare in America (di cui, nonostante l'esplosione, non ci sono prove a sufficienza per decretarne il successo con certezza) è stato ripreso tale e quale e riproposto anche qui da noi.

Qualcuno con soldi da investire accetta una sfida a partire dall'idea di qualcun altro in cambio di parte (di solito una fetta grande) degli eventuali profitti che la stessa idea potrà generare in futuro. Profitti generalmente legati alla vendita delle quote acquisite in fase di finanziamento del progetto.
Semplice, facile, e teoricamente vantaggioso: chi ha l'idea e non ha i soldi trova il modo di realizzarla ed in futuro monetizzarla, e chi ha i soldi e non ha le idee può farli fruttare "senza il minimo sforzo".

Questo sistema ha funzionato per tanti, soprattutto nella Silicon Valley. Ma siamo sicuri che effettivamente funzioni anche in Europa?
Per quanto tempo si può portare avanti questo gioco tra le parti?

Chiunque abbia voglia di provare a sfondare con una propria idea può tentare la strada dei finanziamenti da parte dei venture capitalist o angel investor. Ovviamente non tutte le idee possono sembrare fruttuose agli occhi di ha denaro da investire per finanziare, e questo crea una fortissima selezione iniziale.

La cosa meno seducente di tutto, però, è che non è necessariamente richiesto all'ipotetico finanziatore di essere realmente interessato al progetto: quello che conta è che tale progetto sia fruttuoso o almeno rivendibile nel lungo termine.

E neanche lato ideatori la situazione è così rosea: tante idee negli ultimi anni sembrano essere uscite allo scoperto più per il desiderio di realizzare un prodotto che potesse far gola ad aziende più grandi (e quindi puntando a farsi inglobare da esse), piuttosto che per la sfida ed il desiderio di realizzare qualcosa di concreto.

Ed oggi giocare con gli incubatori e con gli acceleratori sembra l'unico modo per avviare una nuova impresa.
La cosa mette un po' di depressione...



Ma se non si vuole necessariamente condividere "materialmente" la propria idea con gli investitori, altra possibilità (comunque non necessariamente alternativa alla precedente) è tentare di condividere "spiritualmente" quell'idea via crowd-funding.

Piattaforme come Kickstarter, FlashFunders ed altre stanno aprendo i battenti anche in Europa, dopo il grande successo riscosso in altri continenti.

Il concetto non è troppo diverso dal precedente, ma i fini sono opposti: tanti piccoli investitori finanziano l'idea, ma non per averne un ritorno economico nel futuro. Solitamente lo sforzo è richiesto per riuscire a portare fisicamente sul mercato un prodotto o l'idea stessa, e quindi di poterne avere effettivamente accesso (cosa che non potrebbe accadere se l'idea non venisse realizzata).

Se incubatori ed acceleratori aiutano a portare a compimento un progetto per poi eventualmente guadagnarci nel tempo, il crowd-funding aiuta a portare a termine un prodotto con l'aiuto di quelli che ne saranno, poi, sicuramente gli effettivi utilizzatori.

Anche questa volta, però, siamo certi che tale processo sia sempre efficace? Alcuni dispositivi che ho recensito e che seguo qui sul blog in un modo o nell'altro ci sono passati. E con successo: ad esempio Pebble con i suoi primo e terzo smart-watch, oppure Jolla per il suo tablet...
Ma fino a che punto ci si può spingere con promesse, stime grossolane, e quant'altro?

In generale questo secondo approccio permette di avere un contatto diretto con i propri futuri utenti ed avere anche la possibilità di una analisi diretta del mercato di riferimento. Ma non vi è alcuna garanzia né per i piccoli acquirenti-finanziatori né per gli stessi ideatori su quello che succederà al termine della campagna e della prima realizzazione del progetto.

Il crowd-funding può essere in qualche modo visto come una sorta di pre-ordine di un prodotto che, però, è poco più di una scommessa. Incubatori ed acceleratori, invece, vanno inquadrati come finanziatori che fanno una scommessa su un prodotto teoricamente concreto nel tempo, che non è detto avrà sufficienti e reali utilizzatori o acquirenti.
Spunti di lettura:


Mettendo da parte le modalità con le quali queste start-up possono uscire allo scoperto e tentare il successo, un qualcosa che sta esplodendo è il contributo dei giovanissimi.

I nativi digitali, i ragazzi nati con Internet, sanno sviluppare, sanno approcciarsi ai problemi che ci circondano e lo sanno fare molto meglio di coloro nati prima del boom della grande rete. Senza contare che i nuovi nati, ogni anno, risultano sempre più smart delle generazioni precedenti.

Essi sono quegli stessi ragazzi che negli ultimi anni hanno fatto smuovere tante di quelle certezze consolidatesi nel tempo, che stanno perfino portando ad un declino delle religioni (tant'è che quest'ultime stanno prendendo delle contromisure) o che preferiscono Facebook alle trasmissioni televisive per seguire la politica.

Forse con i neo nascituri (i baby boomers) le cose cambieranno ancora, ma al momento è la generazione dei millennials ad essere investita in toto dalle tematiche affrontate oggi.



Viviamo in un mondo sempre più globale e sempre più condiviso (sharing economy), mosso da rivoluzioni continue e virante ad un futuro sempre più incerto (nel bene e nel male).

Un presente fatto di realtà che hanno fondato il loro successo sui dati e sulle informazioni fornite da altri: Facebook è il maggior contenitore di dati, non creati da lei; Uber è il maggior contenitore di vetture, non di suo possesso; Airbnb è il maggior aggregatore di B&B, non gestiti da lei; potrei continuare...

Un mondo che è allo stesso tempo frammentato ed interconnesso: in cui è facilissimo spostarsi tra confini che sono sempre più labili.

Un mondo in cui è possibile fare qualsiasi cosa, ma tra mille ostacoli, difficoltà e complicazioni su larga scala.

Un mondo in cui è opportuno puntare alla condivisione della conoscenza.


E voi che ne pensate delle nuove idee di avvio di impresa (start-up ed investimenti di capitali), sull'esplosione di un'economia digitale condivisa (sharing e digital economy) e la lotta ad essa ed ai sempre più minacciosi crimini cibernetici (cyber-security e programmi di mass surveillance)?

A presto!